Keith Emerson, più di un mito, si è suicidato.
Di lui resta tutto, perché l’inizio della musica progressive è riconducibile a lui, anche se non solo a lui, ovviamente. Ma è lui che ha dato una delle impronte più forti alla musica della seconda metà del novecento, perché in lui si sono fusi più aspetti.
Innanzitutto la tecnica impareggiabile nel suonare il pianoforte e soprattutto l’organo, il moog, le tastiere in genere. Poi la grande creatività e la fisicità del suo suono, delle sue esibizioni, specialmente insieme al suo gruppo Emerson Lake and Palmer.
Poi perché ha ridotto la distanza abissale che separava la musica classica dagli altri generi musicali. Lui ha tratto spunto spunto a piene mani dalla musica classica, ha rivisitato e rivisto, ha plasmato, ha modificato e rigenerato certa musica classica. E poteva farlo.
Adesso Keith, che ultimamente non poteva suonare più bene a causa di una tendinite, se n’è andato. Un colpo di rivoltella e non sappiamo ancora bene perché.
Di lui resta tutto, specialmente per chi, giovane, negli anni settanta, dalla musica, che era politica e viceversa, si attendeva tutto.
Un gentiluomo che poteva salire su un organo e spaccarlo, e subito dopo suonare al pianoforte melodie dolcissime. Con grande sensibilità, preparazione e senza difficoltà.
Era un modo di affrontare la vita, forse, e non solo la musica. Ma la vita l’ha tradito. La musica no, per cui andiamo a riascoltarlo ogniqualvolta la vita si mette di traverso; farà bene, molto bene anche a noi.