Barak Obama ha tenuto il proprio ultimo discorso davanti alla nazione americana prima dell’addio.
Sono passati sette anni, e il Presidente, un grande Presidente, ha tracciato un bilancio, anche se non definitivo, dei propri due mandati.
Un bilancio tutt’altro che definitivo, sul futuro degli Stati Uniti. Come si conviene a chi è solito guardare avanti, e non solo indietro.
Così, fra critiche infondate, detrattori, pessimisti e catastrofisti vari, il Presidente ha inteso parlare di politica economica, confermando la solidità degli States come prima e incontrastata potenza mondiale.
Soprattutto ha sottolineato gli ottimi risultati nel campo dell’occupazione, laddove il tasso di disoccupazione è tornato al 5%, cioè un dato fisiologico. Vale a dire “chi vuol lavorare lavora, chi non vuole non lavora”.
In Italia è dal dopoguerra che ci proviamo. Poi Obama ha parlato degli investimenti necessari sull’istruzione e sulla ricerca, con un occhio particolare alla riforma del sistema universitario.
E soprattutto ha parlato di politiche energetiche lungimiranti, di riscaldamento globale, problema nei confronti del quale è nota l’insensibilità dei Repubblicani.
Il punto debole? Forse la politica internazionale. Ma può un Presidente, anche se degli Stati Uniti, prevedere o evitare fenomeni come il terrorismo internazionale e l’Isis?
Non crediamo, ci basta sapere che, contrariamente ai suoi predecessori, Barak Obama non ha dichiarato né fomentato nessuna guerra nel mondo. Il che non è poco.